Venerdì 7 dicembre, per la rassegna cinematografica dal titolo “Freschi e stagionati”, l’associazione culturale “L’Albero” di Maccarese ha programmato la proiezione del film “Fratello di un altro pianeta” di John Sayles.
Alla fine del film “si spizzica si brinda”, per cui chi lo desidera può portare qualcosa da mangiare o da bere.
Si raccomanda la massima puntualità: alle 21.00 inizierà la proiezione.
Sede: Casa della Partecipazione (via del Buttero – Maccarese).
Info: 339-4539950

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SCHEDA DEL FILM

Brother, schiavo negro fuggito da una piantagione del cosmo, cola a picco nel fondo del porto di New York con la sua navicella spaziale. Riemerso ferito e privo della parola, dapprima vaga spaesato per Ellis Island, nell’intento di sfuggire a due lugubri extra-terrestri che lo inseguono, robot comandati e senz’anima, poi risale l’Hudson e si trova ad Harlem. Ma i due lo rintracciano ben presto e lo pedinano per tutta la città. Rifugiatosi in un bar, sbalordisce tutti con i suoi sovrumani poteri (riesce a riparare un video gioco con il solo contatto delle mani) e si conquista la loro simpatia. Grazie agli amici del bar e ai suoi poteri paranormali, pur non riuscendo a parlare, trova lavoro a Times Square e anche una camera d’affitto presso Randy Sue, una donna che vive col figlio divisa dal marito e che si innamora di Brother, senza rendersi conto che si tratta di un alieno. Fatta esperienza di tutte le miserie e le sopraffazioni della grande città, alle quali pur si sforza di porre rimedio grazie ai suoi incredibili poteri, affronta infine i due alieni che lo tallonano e li disintegra rispedendoli nel cosmo e preferendo agli spazi stellari l’umile pianeta terra, dove non gli è mancata la solidarietà della povera gente.

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REGISTA

John Sayles è uno di quei registi che tutti conoscono e che pochi hanno potuto vedere. Qui da noi il suo cinema indipendente è quasi invisibile, mentre in America è inevitabilmente surclassato dalla produzione mainstream hollywoodiana. Fatta eccezione per Lone Star e Stella solitaria (1996), la sua opera più famosa e celebrata, per i tredici titoli rimanenti è compito del cinefilo recuperare il recuperabile: vedere Il segreto dell’isola di Roan (1995) in Tv alle dieci del mattino o Promesse promesse (1984) alle tre della notte, acquistare all’estero Sunshine State (2002) o vivere del mito dei suoi primi lavori, da Return of the Secaucus 7 (1980) e Lianna (1983), fino a Fratello di un altro pianeta (1985) e Matewan (1987). Per il resto tocca ai festival è in questo caso Pesaro a colmare i vuoti della distribuzione e permettere a registi come Sayles di essere visti, studiati e apprezzati come meritano.
Nel nostro caso, vista finalmente nella sua completezza, l’opera di Sayles risulta come una specie di corpo estraneo nel magma indistinto del cinema americano contemporaneo. I suoi film sono, infatti, luoghi di riflessione, inquietudine e smarrimento accesi da un piacere della narrazione e del racconto ormai rari da trovare. Se Sayles è un cineasta “classico”, lo è nella misura in cui tutto il suo lavoro verte attorno ad un progetto di scrittura rigorosissimo, ad un’attenzione costante a dialoghi e risvolti psicologici dei personaggi, ad una coerente e incalzante progressione drammatica delle sue storie.
Nel metodo di lavoro c’è tutto il senso del suo cinema: dalla necessità, specie nei primi film, di concentrarsi sulle dinamiche interiori dei personaggi per l’impossibilità di ampi movimenti di macchina a causa della scarsità di denaro, alle influenze del cinema commerciale di Roger Corman (per il quale Sayles ha scritto horror e fantasy come Piranha, L’ululato e I magnifici sette dello spazio), all’attività di romanziere prima ancora che di sceneggiatore e regista. Da qui deriva anche il paradosso del quale egli è vittima, vale a dire l’idiosincrasia tra il mito del regista indipendente, politico e controcorrente, venutosi a creare negli anni, e lo stile tutto sommato corretto e invisibile dei suoi film. Un paradosso, questo, che nasce da una concezione quantomeno parziale del cinema indie americano, spesso identificato con la “povertà” e le provocazioni alla Harmony Korine, e quasi mai, nonostante sia questa la linea più feconda, con la chiarezza stilistica.
I film di Sayles sono semplicemente dei racconti, storie di uomini e donne comuni ai quali la sua scrittura precisa e ironica conferisce il dono della sincerità. Il suo spirito umanista lo porta spesso ad ampliare lo sguardo su un gruppo di individui e sulle comunità che essi abitano: la coralità è una delle cifre stilistiche del suo cinema, un modo per mettere in scena l’unione tra il singolo e la comunità, il privato e il pubblico, la storia personale e quella collettiva. Al centro di ogni racconto c’è sempre una famiglia lacerata dai rapporti tra le generazioni, ma l’analisi della dinamica privata si allarga sempre al contesto comunitario al quale ogni individuo appartiene. Nelle cittadine che spesso fanno da contesto fisico e psicologico alle storie, l’America si specchia nella vita dei propri figli, e le vicende di questi ultimi danno vita all’immagine di una nazione intera.
Dopotutto, da cineasta indipendente e militante, emarginato ma anche apprezzato dall’industria (non a caso è consulente non accreditato per molte sceneggiature di film hollywoodiani), Sayles deve sentirsi egli stesso come i suoi personaggi, sospeso in quel paese dall’identità perduta e multiforme che è diventata l’America: un limbo senza nome che può essere invariabilmente il mondo del cinema dominato dagli studios, i ghetti neri di Harem, la Virginia delle miniere di carbone o luoghi di frontiera, dunque di conflitto, come il torrido Texas e la gelida Alaska dalle lande desolate.