Gli indumenti, una volta immessi sul mercato, avrebbero fruttato fino a 800mila euro. L’operazione, denominata “Rascal”, è stata condotta dalla Sezione investigativa Cites di Roma e dal Nucleo Operativo Cites di Fiumicino del Corpo forestale, in collaborazione con l’Area Verifiche e Controlli Antifrode della Direzione Regionale per il Lazio e l’Umbria e l’Ufficio delle Dogane di Civitavecchia. “È l’ennesima conferma che il porto laziale ormai è il canale privilegiato per l’import delle merci dai Paesi asiatici e in particolare dalla Cina”, spiega il soprintendente Marco Fiori del Corpo Forestale dello Stato e responsabile delle investigazioni del servizio Cites (ovvero la Convention on international trade in endangered species of wild fauna and flora, cioè la Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione). I giubbotti viaggiavano all’interno di un container sulla nave “Malaga” proveniente dal porto di Shanghai. L’imbarcazione in precedenza aveva fatto scalo nel porto di Gioia Tauro: la destinazione finale dei giubbotti erano Prato e, per la commercializzazione, Roma: “Sarebbero stati immagazzinati in qualche capannone sulla Tiburtina – spiega Fiori – poi sarebbero stati commercializzati nei negozi gestiti dai cinesi, in particolare all’Esquilino”. “È sicuramente da sottolineare – aggiunge Fiori – che il porto di Civitavecchia ormai ha anche superato Napoli per l’import di merci cinesi. Inoltre, non essendo un porto controllato dalla Cites, è più frequente la possibilità che venga utilizzato per l’introduzione illegale di flora e fauna, oltre che per altre merci illegaliEd è da Civitavecchia che passano le merci non in regola. Altrimenti, i prodotti con certificazione a norma, transitano per Fiumicino, Ciampino e Napoli”.