Il mio “Pinolo Primordiale”, secondo i cerchi concentrici della mia vita oramai ben visibili, dovrebbe essere caduto sulla Grande Madre Terra nel 1965. Quindi figlio diretto della Pineta Monumentale di Fregene, piantata nel 1660 da un benevolo Papa Clemente IX per calmare il vento, rinfrescare la zona, e conferire al luogo una caratteristica salubre visto che noi sprigioniamo benessere balsamico e ossigenante per almeno quattro esseri umani a chioma. Ebbene si, sono quindi di nobili origini.
Sono un Principe. Mi chiamo Pinus Pinea, ma tutti mi chiamano “Marittimo”, che sono i miei cugini ben visibili dall’Argentario in poi e che tendono ad “affacciarsi” tutti piegati e ramificati, tanto per capirci, voi che avete i mezzi per camminare, ma non avete idea di quanto spesso siete fermi e purtroppo pericolosi. Nel 1969, ero alto poco più di un metro e mezzo e avevo quei capelli che noi Pini chiamiamo “verdi cucciolo”, quasi smeraldini. Ogni tanto vedevo delle escavatrici, che però si muovevano a una buona distanza da me. Molti operai e una bella costruzione che prendeva forma davanti. Poi una dietro, poi una accanto. Tutto così vorticosamente che quasi mi divertivo a vedere tutti quegli umani vestiti alla “Mario Bros” lavorare forsennatamente e ogni tanto guardarmi e rispettarmi nella mia lenta crescita.
Ero troppo carino, lo so da solo.
Nel 1970, una calma assoluta con questi tre edifici che quasi mi proteggevano e alcuni bambini che correvano come pazzi in quei giardini delineati solo dall’idea di un confine per quanto erano amici. Ce n’era uno di quei ragazzini che spesso veniva e si divertiva ad avvolgere il mio tronco nella sua piccola e calda mano, stringeva. Aveva degli occhi azzurri che sembravano zaffiri, di quel colore che noi Pini chiamiamo “occhi blu cucciolo”. Correva in continuazione su una bicicletta, seduto sul portapacchi e con il manubrio abbassato per farla diventare come una moto da corsa, non si fermava mai, arrivava davanti a me e tornava indietro. Un continuo. Ma noi Pini non riposiamo mai, e non mi disturbava, noi dobbiamo ossigenare l’ambiente, è la nostra missione, non ci possiamo fare nulla. Il tempo passava lento allo scorrere dei miei cicli clorofilliani, e questa famigliola continuava a starmi attorno. Sotto di me, attaccato-attaccato, una signora fece un quadrato ben curato di terra per farlo diventare un orticello. A botte di quella dolcissima voce, taumaturgica anche per me, riusciva a far crescere di tutto.
E poi paperelle, galletti, per un periodo un paio di cani. Non mi annoiavo.
Il ragazzo si fece forte, un po’ spavaldo, ma noi bellocci siamo un po’ così, e cominciò a legarmi fili, corde, amache tra me e il mio compagno di vita Leccio.
Un giorno arrivò con martelli e chiodi per attaccarmi un supporto di ferro per una doccia esterna che il ragazzo si faceva ogni volta che tornava dal mare. Mammamia che litigata… Da quei buchi cominciai a lacrimare più resina che potevo.
Gli volevo far capire che mi aveva fatto male e lo capì bene la signora dell’orto quando urlando umiliò il ragazzo dicendogli “lo vedi come piange? Leva subito quell’arnese!”. Nel frattempo crescevo, sempre più forte, con sempre più ossigeno da dare, con sempre più fresco da offrire, ed ero ricambiato a tal punto che molti rampicanti mi abbracciavano di continuo e, come per il mio amico umano e giocherellone, questi abbracci non mi dispiacevano affatto.
Noi Pini abbiamo il destino di vivere, per chi ha la fortuna che io non ho avuto, molto più degli umani, e purtroppo siamo costretti, nei secoli, ad assistere alla vostra caducità. E cominciarono le tristezze, gestite sempre da quel ragazzotto oramai diventato adulto, che vedevo barcamenarsi tra traversine, ricoveri, ambulanze, fino a rimanere solo soletto a trafficare sempre con qualche attrezzetto protetto dalla mia chioma ancora, in rapporto all’età media della nostra lunga esistenza, giovane virgulto di 20 metri.
Certo, ogni tanto il barbiere mi tagliava i capelli e l’ortopedico mi curava le braccia, ma ero sempre contento di rifocillare i nuovi bambini arrivati sotto la mia protezione, ai quali piaceva prendere la pietra più grande della loro mano per passare le loro divertenti conversazioni mangiando pinoli su pinoli, il nostro frutto, nutriente e antiossidante, che oramai copre la specialità di tutte le pasticcerie della mia Terra fregenate: la Torta della Nonna. Pur fermi sulle nostre radici incontriamo, a volte e spero raramente, nel nostro immobile cammino, il destino di quelli che in umanologia chiamate xenofobi o razzisti, o più semplicemente “anaffettivi” e, lo potete confermare tutti voi che avete i miei fratelli nei vostri freschi giardini: una volta che parte anche una piccola idea di richiesta di abbattimento nei nostri riguardi, potete chiamare tutti i barbieri e ortopedici che volete, ma noi siamo segnati, non più a piangere resina, ma a cadere.

di Pinus Pinea