“Nel clima di paura e di incertezza che caratterizzava quell’estate del 1943, veniva assassinato a Fregene Ettore Muti, noto più per essere stato un asso della nostra aviazione che per essere stato un gerarca del Partito Nazionale Fascista.
Aveva preso in affitto un villino in via Bagnoli, dove trascorreva un periodo di riposo in attesa, probabilmente, di una schiarita nell’orizzonte politico, dopo la deposizione di Mussolini avvenuta un mese prima nella seduta del Gran Consiglio. Insieme a lui Dana Harlowa, una ballerina rumena che lavorava con la compagnia di Edoardo Spataro.
È la notte tra il 23 e il 24 agosto, quando una pattuglia di agenti lo va a svegliare per portarlo via in fretta. Muti, prima di uscire, indossa la divisa da tenente colonnello pilota con le decorazioni (una medaglia d’oro e dieci d’argento) e si congeda dalla casa dando un bacio all’amica e salutando la domestica.
Il drappello si incammina su via Palombina, allora solo un sentiero tra cespugli di mirto e di leccio, puntando verso la pineta. Sono le due, quando viene inscenata una sparatoria (come in risposta a un attacco dall’esterno, che non c’è stato), al termine della quale Muti è a terra, il cranio trapassato da due proiettili entrati dalla nuca. Qualcuno degli abitanti prova ad aprire la finestra, ma gli viene intimato di ritirarsi.
A Roma, quando arriva la notizia della uccisione di Muti, si pensa subito ai partigiani. E comincia a circolare una canzone che minaccia vendetta.
Si appurerà in seguito che il commando, composto dal tenente dei carabinieri Ettore Taddei, dal maresciallo Alarico Ricci e da un misterioso individuo che indossava una tuta color kaki, con la scorta di altri carabinieri dislocati lungo il tragitto, era nient’altro che una emanazione dei servizi segreti militari.
La paternità della spedizione sul momento viene attribuita a Badoglio, capo del governo. Ma dalle indagini fatte successivamente risulta che quanto meno Badoglio non aveva impartito l’ordine di uccidere Muti. A volerne la morte, facendola passare per un incidente, anziché l’arresto, sarebbe stato qualcun altro. Una ruolo importante in tutta la vicenda l’ebbe, secondo gli storici, il generale Giacomo Carboni, capo del Servizio informazioni militari (SIM) e del corpo d’armata motocarrozzato che presidiava la piazza di Roma: sarebbe stato lui ad architettare l’operazione, dopo aver fatto credere a Badoglio che Muti stava preparando un complotto per la data del 25 agosto. Complotto che sarebbe scattato contro l’armistizio e il ribaltamento delle alleanze.
In realtà ci si voleva sbarazzare di un personaggio di cui si temeva la popolarità qualora avesse preso posizione contro il nuovo corso. A sparare è stato Francesco Abate, agente di pubblica sicurezza, napoletano: il misterioso uomo in tuta color kaki che aveva preso posizione alle spalle di Muti durante la marcia di trasferimento.
Ravennate, Muti era stato segretario generale del Partito Nazionale Fascista dal novembre 1939 all’ottobre del ’40. Ma in quella veste non si era sentito a suo agio, tanto che era stato lui stesso a chiedere di esserne esonerato.
La popolarità se l’era conquistata principalmente sui cieli di guerra. E distinguendosi dagli altri gerarchi per una certa autonomia di giudizio. Con gli amici diceva che Mussolini di guerra non ne capiva niente. Con i colleghi d’Arma si sfogava contro coloro che facevano professione di fede al regime per puro opportunismo.
Caricata su un autocarro e portata a Roma, la salma di Muti fu tumulata al Verano. E dopo l’8 settembre fu traslata nella natia Ravenna.
Dino Grandi, protagonista della seduta del 25 luglio che portò alla caduta del fascismo, ci tenne a far sapere che Muti era perfettamente sulla linea del suo ordine del giorno e che pertanto era stato colpito un obiettivo sbagliato. E il fatto che Muti gli abbia dato protezione, ospitandolo nella villetta di Fregene, prima che potesse espatriare in Portogallo, ne è la conferma. Ciò che rende ancora più amara la fine che il destino ha riservato a questo personaggio.
Per Indro Montanelli “Muti era stato uno squadrista tra i più bollenti della sua bollente Romagna. Ma, terminato quel periodo, egli si era appartato dalla politica per dedicarsi alla sua unica vera passione: la caccia aerea. Era accorso in Abissinia, ma c’era rimasto poco perché, deluso, diceva ‘qui non c’è selvaggina’, alludendo alla totale mancanza di un’aviazione nemica. Ma in Spagna e poi sui teatri di guerra europei ebbe di che saziarsene, suscitando l’ammirazione perfino di Galland, il più grande cacciatore tedesco di tutti i tempi e di tutti gli eserciti. Era un uomo semplice, di poca cultura e di poche parole, che non parlava mai delle sue gesta, non sfoggiava le decorazioni di cui era ricoperto ed è morto povero”.
“Il Messaggero” dava la notizia della morte di Muti il 25 agosto con un comunicato di tre righe scarse senza nemmeno spiegare come fosse successo: “È deceduto ieri a Roma la Medaglia d’oro tenente colonnello pilota Ettore Muti”.
Fino a qualche anno fa una mano ignota faceva trovare all’alba del 24 agosto una corona di fiori nel punto dove Muti è stato ucciso”.