Partito da Maccarese ha giocato in tante squadre di Serie A. Poi l’epatite e il trapianto del fegato. Ora la rinascita e la guida della nazionale trapiantati.

Giorgio Enzo era un predestinato. Classe 1962, a 15 anni quando da capitano degli allievi del Maccarese scendeva in campo si vedeva subito che era di un’altra categoria. Alto, fisico potente, un mediano completo capace umilmente di marcare ma quando ripartiva non lo prendevi più. Colpo di testa, tecnica e un destro così potente da mandare il portiere in rete con tutta la palla. Gli osservatori se lo litigavano, tanto che dall’Emilio Darra prese il volo molto presto. Dopo poca trafila finì nelle serie che contano, tante partite, altrettante battaglie nel calcio vero, quello di “90° minuto”. In Serie A con Lecce e Ascoli, ma ha vestito anche le maglie di Atalanta, Torino, Taranto, Massese, Savona, Cerretese e Frascati.
Da mediano ha marcato addirittura Diego Armando Maradona, ha lasciato bellissimi ricordo in tutte le piazze da lui frequentate ed è stato uno degli artefici della risurrezione del Torino (stagione ’89-’90).
A parte gli amici più stretti di Maccarese, quelli con cui si è sempre sentito negli anni, la sua figura è tornata in questi giorni alla ribalta sui media nazionali grazie a un articolo a firma di Marco Bonetto su Tuttosport di domenica 18 novembre 2018 nella rubrica “L’uomo della domenica”.
Sembrava che la vita gli avesse riservato solamente gioie o magari partite impegnative come quelle in cui gli toccò marcare Maradona e Platini. Invece il destino aveva in serbo per lui qualcosa di diverso. Un giorno, a metà anni ’90, la serenità nella sua abitazione San Baronto (Pistoia), dove vive attualmente, è stata spazzata via in pochi secondi. Giorgio era stato inserito nella lista dei malati di trapianto di fegato ed era un caso urgente. “Avevo 33 anni – racconta a Marco Bonetto – ed ero stato benissimo fino a quel momento. Giocavo ancora, ero alla Massese. L’epatite C è una bestia latente, subdola. Non dà problemi. Poi un giorno esplode all’improvviso. E cominci a sentirti stanco, sempre più stanco. Qualunque cosa ti stanca”.
L’attesa del trapianto di fegato non è stata di giorni, settimane o mesi, è durata ben diciassette anni. Dal 1995 in cui gli è stata diagnosticata l’epatite C, il trapianto è avvenuto solamente nel 2012. È stato un lungo calvario, snervante e pieno di silenzi perché Giorgio e la moglie hanno tenuto all’oscuro i figli. “Non volevo farli crescere con il terrore di poter perdere il papà da un momento all’altro. Volevo salvaguardarli dal mio dramma”.
Con il trapianto la strada sembrava in discesa e la partita più importante della vita proseguiva nel migliore dei modi. “E invece due giorni dopo il trapianto – racconta Giorgio – avevo di nuovo in circolo l’epatite. Il fegato nuovo venne contaminato dal mio sangue infetto. Pensai che fosse stato tutto inutile, per fortuna nel 2013 è uscita la famosa medicina che quasi d’incanto ha fatto sparire l’epatite C. Si chiama sofosbuvir, è un’opera d’arte”.
È così che Giorgio ha vinto la partita più lunga e più dura della sua vita. Ora dopo la tempesta fa il nonno a tempo pieno e il giardiniere della sua casa dove cura 80 ulivi. Inoltre ha continuato a mettere gli scarpini, visto che ha giocato una quarantina di partite tra il 2013 e il 2017 indossando la maglia della Nazionale trapiantati. “Poi – dice Giorgio – ho dovuto smettere sia per motivi di età che per i problemi al ginocchio”.
Ma il riposo è durato poco perché da un anno è diventato lui l’allenatore della nazionale trapiantati. “In un anno ho già guidato la squadra in 10 partite – racconta – vinciamo, perdiamo ma per noi il risultato è sempre secondario. Diciamo che sono l’unico allenatore al mondo che non rischia mai l’esonero. Giochiamo per promuovere la donazione degli organi, questo stupendo atto di solidarietà di vita”.
E bravo Giorgio, ricordato con affetto dagli amici di Maccarese e di Fregene, come da ragazzo continui a essere di un’altra categoria.