Questa sembra una di quelle, una bambina di 14 anni che per poter andare a scuola e studiare diventa un simbolo, suo malgrado, contro la follia integralista dei talebani. Che le sparano in testa all’uscita della scuola. Se un simbolo deve essere, allora che diventi quello della protesta generale, che questo atto si trasformi nella sconfitta di questi barbari.

Se libri come “Il cacciatore di aquiloni”, sono diventati in tutto il mondo l’arma migliore contro il fanatismo dei talebani, che il sacrifico di questa bambina diventi un boomerang per chi lo ha compiuto e si trasformi in un manifesto contro il buio della ragione che sempre genera i suoi mostri tentacolari.

Invitando tutti ad esprimere la loro solidarietà, pubblichiamo l’articolo del Corriere della Sera.it di oggi:

Come si fa a sparare a una ragazzina di 14 anni? È poco più che una bambina. È stata questa la prima reazione di molti – in Pakistan come in Occidente – alla notizia dell’attentato di ieri contro Malala Yousafzai, una giovane studentessa che vive nella regione di Swat, al confine con l’Afghanistan. In quella zona, dal 2003 al 2009 i talebani presero il controllo (e molti criticarono il governo pachistano per non averlo impedito) e vietarono l’istruzione femminile, distruggendo centinaia di scuole. Nel luglio 2009, dopo furiosi combattimenti, l’esercito li ha sconfitti, e da allora il governo ha incoraggiato i turisti a tornare a visitare quella che, una volta, era una popolare destinazione sciistica. Ma l’episodio di ieri mostra quanta strada ci sia ancora da fare.
Un uomo barbuto avrebbe sparato alla ragazzina all’uscita della scuola, colpendola alla testa e forse al collo, secondo fonti locali. Poco dopo, la rivendicazione dei talebani pachistani: «L’abbiamo attaccata perché diffondeva idee laiche fra i giovani e faceva propaganda contro di noi. Oltretutto, considerava Obama il suo idolo». Le tv pachistane hanno mostrato ininterrottamente le immagini dell’adolescente distesa su una barella, con una benda sulla fronte, e fonti ospedaliere hanno più tardi riferito che le sue condizioni sono «gravi». Washington ha definito l’attacco «barbaro» ma non sono mancate nemmeno le condanne dei politici locali, incluso il presidente Asif Ali Zardari che anni fa ha perso la moglie Benazir Bhutto in un attentato, e il premier Raja Pervez Ashraf che ha mandato un elicottero per trasferire Malala in ospedale. Infuriati gli opinionisti pachistani, sotto choc molti cittadini in un Paese che pure è tristemente abituato alla violenza.
«Codardi, avete paura di una adolescente», ha commentato su Twitter Shehryar Taseer, figlio del governatore del Punjab assassinato l’anno scorso perché contrario alle leggi sulla blasfemia. Malala però non è una ragazzina qualunque. È la studentessa più nota del Pakistan, ha ricevuto l’anno scorso un riconoscimento per il suo coraggio dall’ex premier, ed è stata candidata a un premio internazionale. Non a caso, prima di sparare, pare che l’assalitore abbia chiesto: «Dov’è Malala?». La ragazzina è vista come un pericolo dai talebani non «nonostante», ma per via della sua età, perché rappresenta le nuove generazioni. Pur non sapendo cosa fare da grande – il medico, disse anni fa, ma ultimamente pensava alla politica – crede che l’istruzione sia un suo diritto. Pur non negando di avere paura, la sua voglia di studiare si è rivelata più forte. Mentre a Swat i talebani decapitavano la gente per «comportamenti anti-islamici», lei continuava ad andare a scuola e, nel 2009, a undici anni, scrisse un diario online per la Bbc raccontando sotto pseudonimo la sua vita di studentessa. «Avevamo paura che ci gettassero addosso l’acido o che ci rapissero. Quei barbari erano capaci di qualunque cosa. Perciò evitavamo di indossare la divisa scolastica, portavamo abiti normali per non dare nell’occhio, nascondevamo i libri sotto lo scialle». Era un diario in urdu, stampato anche su un giornale locale, dunque accessibile a chi non sa l’inglese, per dare coraggio ad altre bambine e alle loro famiglie. «Solo 11 compagne su 27 sono venute in classe oggi – scrisse nel gennaio 2009 -. È per colpa dell’editto dei talebani. Tre delle mie amiche si sono trasferite in altre città. Mentre tornavo da scuola, ho sentito un uomo che diceva: “Ti ucciderò”. Ho affrettato il passo, guardandomi indietro per vedere se mi seguiva. Ma ho provato un grande sollievo quando mi sono resa conto che stava parlando al cellulare. Minacciava qualcun altro».
Quando i talebani sono stati sconfitti a Swat, Malala ha fatto ciò che molti adulti non hanno il coraggio di fare: li ha criticati pubblicamente in tv. Di minacce ne ha ricevute molte, sperimentato le conseguenze dell’attivismo prima di quelle della pubertà. Ha difeso l’importanza dell’istruzione: «Dateci delle penne oppure i terroristi metteranno in mano alla mia generazione le armi». Perciò l’attacco contro di lei è un avvertimento a tutti coloro che lavorano per le donne e le ragazze. Ed è un monito alle famiglie divise tra l’attrattiva delle libertà occidentali e il rispetto delle tradizioni locali. «Dopo l’operazione dell’esercito la situazione è tornata alla normalità – aveva detto Malala l’anno scorso -. Speriamo che ricostruiscano le scuole al più presto. Ora tutti sono liberi di studiare e le ragazze non hanno paura dei talebani».
«Malala» significa «addolorata». Qualche anno fa sua madre aveva suggerito al marito: «Mi piace lo pseudonimo che ha scelto per il diario, Gul Makai: “Perché non le cambiamo il nome?”». Ma Malala è anche una guerriera pashtun del XIX secolo, una Giovanna D’Arco afghana che ispirò il popolo a combattere fino alla morte contro britannici e indiani «anziché vivere una vita nella vergogna». Stessi valori ma dedicati a fini diversi dai talebani, in maggioranza di etnia pashtun.

(Corriere della Sera.it – Viviana Mazza)