Innanzitutto, forse, ammettendo che non è affatto inaudita tale violenza. L’abbiamo vista, letta, udita, tante e tante altre volte. Imoventi? Spesso diversissimi. Dalle questioni più futili — un insulto, un vicino di casa rumoroso, un rifiuto sentimentale — a quelle apparentemente più logico-razionali: un debito, un furto, una eredità.

Lo scrittore che è in me ammutolisce. La realtà pare imitare la finzione, superarla per aggressività, follia, perversione. Potremmo tentare una ipotesi da narratore: l’amputazione degli arti, vedi l’omicidio Roveraro nel 2006, o in questo caso della testa della vittima, si può spiegare (se possiamo permetterci di «spiegare» la brutalità) come parte di un piano criminale atto a confondere le indagini, eliminando le impronte digitali, deturpando a tal punto l’identità della vittima da non poterla più riconoscere, e quindi non farla risalire, in qualche modo, all’omicida.

Ma se fosse un giallo, e purtroppo non lo è, sarebbe un pessimo giallo. Gli autori di tali violenze piuttosto che geniali killer seriali sembrano, al più, passivi spettatori di fiction televisive poco fantasiose. Infatti le forze dell’ordine, sistematicamente, non devono fare molta strada prima di trovare gli artefici di questi crimini. Thomas de Quincey, il sarcastico autore de L’assassinio come una delle belle arti inorridirebbe per il dilettantismo così poco estetico. Ma la morte è lamorte e non bastano gli anticorpi di una interpretazione letteraria a fermare lo sgomento.

Forse un sociologo si soffermerebbe sulla curiosa successione di tali omicidi in terra padana. Da Novi Ligure, giù giù, fino a Erba, Pavia, Brescia, Fornovo di Taro, Bassano. Nell’Italia operosa, industriale, avanzata, moderna. Ma quanto pregiudizio c’è in questa analisi? Alcuni omicidi mafiosi, di tutte le mafie del meridione d’Italia, spaventano allo stesso modo per crudeltà, violenza, efferatezza. Forse che lì uccidere è socialmente più accettabile? Suvvia. La verità è che i crimini padani, della civile «Padania», ci spaventano perché non vogliamo accettarli; perché quelle vittime, quegli assassini, ci assomigliano, in quelle storie ci riconosciamo. Non vogliamo accettare che il nostro vicino di casa — cioè noi stessi —, così amodo, così ben educato, così urbano, possa essere l’incarnazione del male. «Efferato» per il dizionario significa «feroce, crudele, inumano». Ma se noi, guardando nel baratro del nostro stesso io, vediamo il buio dell’orrore, ci tocca poi ammettere che l’umanità che diamo tanto per scontata è in verità un processo culturale, non naturale, conquistato in secoli di civiltà, ed è perciò labile, un sussurro flebile pronto a soccombere al primo colpo di vento.

Insomma, forse ci vorrebbe un antropologo per spiegare cosa passa nella mente di un criminale. Nella nostra mente. Perché ci racconterebbe che noi, in modo pre-culturale, precivile, siamo ancora quelli di decine di migliaia di anni fa. In una società che si fregia essere virtuale, interconnessa, digitale, è ancora lo scandalo della irriducibilità dei corpi che ci terrorizza e, inutile negarlo, affascina. Decapitare un cadavere sembra come l’atavico tentativo di uccidere di più, meglio, uccidere per davvero, fugando la possibilità che l’anima della vittima possa tornare a farci visita nei nostri incubi notturni. Questo ci spaventa e, insisto, affascina: scoprire di essere ancora così maledettamente primordiali, così simili ai nostri antenati. Questo è il nostro vero inconfessato incubo.