Ogni tre secondi, nel mondo, una persona sviluppa una forma di demenza. Dietro questa cifra impressionante si nasconde una delle sfide più complesse della medicina contemporanea: capire come e quando inizia il declino cognitivo, e se sia possibile fermarlo.
A queste domande ha dedicato un’approfondita analisi il settimanale New Scientist nel servizio “Decoding Dementia” (11 ottobre 2025), che ripercorre i progressi scientifici più recenti nella comprensione dell’Alzheimer e delle altre forme di deterioramento cognitivo.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 55 milioni di persone nel mondo convivono oggi con una forma di demenza, e ogni anno si aggiungono quasi 10 milioni di nuovi casi. Numeri destinati a crescere con l’invecchiamento della popolazione e il miglioramento delle cure per altre malattie croniche.
Eppure, nonostante questa diffusione, la demenza resta in parte un enigma: perché colpisce alcuni e risparmia altri? E soprattutto si può intervenire prima che i sintomi si manifestino?
Il messaggio di fondo dell’articolo è chiaro: per “decodificare” la demenza occorre guardare molto prima dei sintomi, quando il cervello sembra ancora sano ma i primi cambiamenti sono già iniziati.
Per decenni l’Alzheimer è stato descritto come una conseguenza dell’accumulo di beta amiloide e proteina TAU, due sostanze che, depositandosi nel cervello, distruggono progressivamente i neuroni. Ma la ricerca più recente delinea un quadro più articolato; infiammazione, metabolismo, fattori vascolari, microbiota e genetica concorrono a creare una rete di cause che, sommandosi nel tempo, alterano l’equilibrio cerebrale.
La malattia non è quindi un evento improvviso, ma un processo lungo, fatto di sottili squilibri che possono iniziare decenni prima della diagnosi. Negli ultimi anni la ricerca ha imparato a “leggere” questi processi con strumenti sempre più sofisticati. Le tecniche di neuroimaging avanzato come la risonanza magnetica funzionale e la tomografia a emissione di positroni, permettono oggi di osservare in tempo reale i circuiti cerebrali della memoria, ancor prima che si deteriorino.
Parallelamente, i biomarcatori plasmatici, capaci di rilevare proteine alterate nel sangue, rendono le indagini più accessibili e meno invasive. Queste scoperte stanno cambiando anche il voto delle terapie.
Gli ultimi anni hanno visto l’arrivo delle prime molecole modificanti la malattia, capaci di agire sui meccanismi patologici dell’Alzheimer riducendo l’accumulo di amiloide e rallentando il declino cognitivo, purché somministrate nelle fasi iniziali. Si tratta di farmaci complessi, costosi, che richiedono diagnosi biomolecolari precise e un attento monitoraggio degli effetti avversi, ma rappresentano una svolta concettuale ; non più soltanto alleviare i sintomi ma tentare di cambiare la storia naturale della malattia.
Il grande cambio di prospettiva nella lotta all’Alzheimer nasce quindi alla possibilità di intercettare la malattia prima che si manifesti.
Ma come fare? La ricerca sta aprendo la strada a una diagnosi sempre più precoce e predittiva, grazie identificazione di biomarcatori nel sangue, a tecniche di imaging in grado di osservare il cervello in tempo reale e a modelli genetici che stimano la predisposizione individuale.
Questi strumenti permettono di riconoscere chi presenta alterazioni silenziose, molto tempo prima che compaiono i disturbi della memoria o dell’orientamento. Sapere che il cervello sta cambiando è importante, ma ciò che può davvero modificare il corso della malattia è come si vive, cosa si fa per proteggere la salute cognitiva, quando si interviene sui fattori di rischio che favoriscono il declino.
Ecco allora che la prevenzione diventa l’altro punto della diagnosi precoce. Negli ultimi anni la medicina ha chiarito come molti dei fattori che indeboliscono il cervello siano gli stessi che danneggiano il cuore: ipertensione, diabete, obesità, sedentarietà, fumo, isolamento sociale. Ridurre questi ed altri elementi di rischio favorendo uno stile di vita adeguato non significa soltanto prevenire un infarto o un ictus, ma può anche preservare la memoria e le funzioni cognitive. La capacità di un cervello di compensare le perdite neuronali grazie una maggiore allenamento mentale e fisico lo rendono più stimolato, curioso, connesso e anche un cervello più resistente.
A cura di Farmacie Comunali

