Chirurgia estetica Del terzo millennio: eccessi, fragilità, nuove identità ed etica al tempo dei social

“Ragazze, non abbiate paura: siate consapevoli della situazione in cui vivete, non cadete negli stereotipi in cui la società vuole inserirvi, fate sentire la vostra voce.”

Così l’artista e performer Orlan incoraggiava le giovani donne, a partire dalla metà degli anni ’70, a prendere coscienza del proprio corpo e del proprio ruolo nella società.

La sua arte consisteva infatti nel modificare, con interventi di chirurgia plastica audaci, il proprio corpo in modo del tutto originale, spesso per contestare e stravolgere i canoni estetici imposti dal sentire comune e dal contesto sociale.

Si fece impiantare protesi, destinate in realtà agli zigomi, sulla fronte, per simulare un paio di corna.

“Oggi, dice l’artista, con la chirurgia e con la tecnologia siamo in grado di inventarci il corpo e il viso, persino di plasmarcelo a piacere. Da quando ho cominciato a sottopormi a interventi per dimostrare questa deriva (dalla metà degli anni Ottanta) la tendenza estetica è diventata ancora più estrema e quello che io facevo come performance è stato scavalcato dalla realtà. Oggi gli stereotipi sull’aspetto della donna sono ancora più duri da estirpare perché sembra che tutto sia possibile, anche arrivare ad un aspetto irreale, anche modificare se stesse fino all’inverosimile.”

Ed è l’inverosimile a caratterizzare questa fase storica, in cui c’è una gara nel trasformare corpi naturali in immagini del tutto artificiali, in cui la ricerca del risultato “naturale” non solo viene annullata ma addirittura sfidata: è l’eccesso il punto di arrivo, la distanza netta dalla verosimiglianza.

Questo processo ci restituisce, quindi, i modelli imperanti sui social networks più legati all’esposizione di sé, come Instagram, in cui giovani donne fanno a gara nell’esibire corpi sempre più visibilmente irrealistici, a volte sfidando il comune senso delle proporzioni: seni e natiche giganti, labbra enormi, punti vita microscopici.

C’è da chiedersi, in questo contesto, a che punto sia la consapevolezza reale della propria identità: quale immagine si vuole restituire al mondo? E soprattutto di quale mondo?

Il mondo reale infatti scompare come ambiente nel quale interagire e mostrarsi ed è quello virtuale a prendere il sopravvento.

Un mondo fatto di regole a sé stanti, del tutto avulse dall’incontro diretto con altri esseri umani, in cui non conta più essere semplicemente belle, ma in cui si vive una seconda identità che, non di rado, prende il sopravvento su quella originaria. Si diventa avatar di se stessi, ma in carne, ossa e protesi.

La tendenza e il desiderio dell’essere umano a modificare il proprio corpo risale alla notte dei tempi, spesso per essere accettati dalla società in cui si viveva o per dimostrare il proprio ruolo e la propria forza.

Oggi invece abbiamo spesso dei risvolti psicologici anche drammatici negli esempi che possiamo verificare sui social: non si tratta più di affermare la propria personalità, ma di correre dietro a modelli sempre più competitivi, su terreni che sfidano il senso stesso del bello e di ciò che puo’ essere gradevole alla vista, rivelando, in coloro che abusano della chirurgia estetica, personalità estremamente fragili. Ci si chiede che tipo di analisi psicologica effettuino alcuni chirurghi, quando vediamo eccessi e risultati devastanti sui pazienti.

Un chirurgo estetico dovrebbe quindi essere “pronto ad ascoltare e aiutare ogni paziente per raggiungere insieme un risultato che sia in armonia con il proprio corpo e la propria personalità”.

E’ la filosofia del chirurgo Stefano Campa (la cui clinica a Roma offre servizi di chirurgia e medicina ricostruttiva ed estetica) il cui sito è improntato appunto su una visione della bellezza in senso “classico”: le proporzioni, la naturalezza e lo stare bene con se stessi.

Una controtendenza nel panorama attuale.

Grande considerazione, in primis, dell’aspetto psicologico di chi si appresta ad affrontare un intervento, che sia ricostruttivo o puramente estetico.

E’ estremamente importante, appunto, che le aspettative del paziente non siano irrealistiche e che aiutino la persona a rafforzare la propria autostima: un approccio etico che contrasta la disumanizzazione imperante e che ristabilisce la centralità del proprio essere unici ed irripetibili e di trovare, in questo modo, il proprio posto nel mondo.