Ho letto un breve articolo su Enrico Vanzina e il suo amore svanito per Fregene, poi ho letto su Qui Fregene l’articolo firmato Marco Traverso sulla progettata riqualificazione della pineta intitolata a Federico Fellini: le due cose mi hanno scorticato la ferita che anni di psicocicatrene avevano reso meno dolorosa e hanno stimolato riflessioni e ricordi. Mi rendo conto di quanto poco conterebbero se non ci fosse un particolare che forse potrebbe renderle interessanti: datano settantasei anni!

La pineta non era intitolata. Fregene era la pineta e la pineta era Fregene; si estendeva dallo stabilimento “Miraggio” (che non esisteva ancora come tutti, del resto, tranne l’Oasi e il Lido) e all’altezza della Nave, si diradava per lasciare posto alla macchia. Era un tetto verde e compatto a venticinque metri di altezza che conteneva aria fresca e profumata, arrivava fino alla sabbia, allora molto chiara dove i giganteschi tronchi lasciavano spazio a un tappeto di piante grasse dai fiori multicolori.

Case, ville? C’era qualcosa intorno a via Castellammare, la villa del barone Tucci su viale della Pineta verso il mare, Villa dei Pini su viale Sestri Ponente, un solo edificio con un grande parco cosi come era nata per il principe Borghese, e, sempre su Sestri Ponente un basso isolato di negozi, dai Comazzetto, dove si faceva la spesa. Le strade asfaltate pochissime.

Anche viale Castellammare era molto più corta, finiva più o meno all’altezza della Nave con un cancello dietro il quale c’erano delle fontane dove si andava a prendere l’acqua potabile. Viale Sestri Levante non esisteva: c’era un rigagnolo dove cantavano le ranocchie. Né c’era un lungomare, ma si andava dappertutto con le strade sterrate attraverso la pineta oppure con i sentierini che le stesse biciclette tracciavano sul tappeto di aghi di pino intorno al sottobosco.

Si, perché le macchine non si usavano, tranne quando si veniva da Roma: si parcheggiavano in villa e si riprendevano per tornare a Roma. Fregene è piccola e tutta piana e tutto si può fare in bici. Era uno degli atout di Fregene. Poi c’era il mare che non è mai uguale un giorno dopo l’altro, e l’aria dei pini che mitigava – per i bambini e per le persone sensibili – l’effetto collaterale eccitante del mare e rendeva i lunghi soggiorni particolarmente salubri. E poi c’era… quella calda magica luce color del rame che traspariva mitigata dalle folte chiome dei pini e riflessa dal tappeto di aghi. Era bellissimo il bosco ma – ora lo capisco – perchè curato: non si vedevano tristi tronchi abbattuti, rami spezzati e arbusti secchi. Non parlo di plastiche e cartacce, quelle sono arrivate dopo, parlo della cura propria dei boschi che è naturalmente diversa da quella dei giardini ma ugualmente indispensabile.

Siamo cresciuti così in un meraviglioso parco giochi, fantastiche avventure al mare la mattina, non in piscina, e in pineta il pomeriggio. Intanto crescevano anche le ville in un passaparola tra amici, cosicché ci conoscevamo tutti. E’ vero che si dissacrava questo posto meraviglioso ma ognuno costruiva per sé, senza l’intento speculativo dell’impresa che deve guadagnare per metro quadro costruito. I criteri di proporzionalità tra la costruzione e il terreno erano rigidi.

Sceglievano Fregene professori, studiosi, intellettuali che apprezzavano il clima semplice e tranquillo ed elegante del posto. Gli amanti delle notti brave, delle musiche a palla, andavano a Capri, a Forte dei Marmi o sulla riviera Romagnola. I ragazzi andavano il pomeriggio e la sera a giocare a ping pong a Villa dei Pini o alla Conchiglia o a casa degli amici: era lo sport di Fregene. I genitori si ritrovavano in casa ora dell’uno ora

dell’altro: ricordo quanto fossero interessanti e affascinanti le conversazioni tra queste persone il cui livello culturale era mediamente molto alto, anche per chi, come me, era contro per principio, ero adolescente. Non oso fare nomi perché erano persone abituate ad essere citate in ben altro testo ma se posso permettermi almeno di farne uno per tutti, è nell’abbaino-studio della sua villa di Fregene che il grande giurista Salvatore Satta lavorò al suo capolavoro “Il giorno del giudizio”.

La sera si andava a mangiare da Mastino o da Santino, alla Conchiglia, o a qualche ricevimento in villa sempre discretamente silenzioso ma non per questo meno elegante. Era questa Fregene di cui parla il dottor Vanzina nel suo articolo, che affascinava anche tanto i personaggi importanti nel mondo dello spettacolo e della letteratura. Poi si sono asfaltate sempre più strade per le automobili; per molti i pini davano fastidio, si facevano morire per poterli tagliare e si soffocavano con l’asfalto; le case si compravano fatte a schiera da imprese con criteri speculativi e sempre più intensivi e il comune di Roma decideva che questa spiaggia dei ricchi doveva essere punita; i criteri di concessione edilizia si ammorbidivano; la velocità della distruzione aumentava; gli stabilimenti occupavano ormai ogni metro della grande spiaggia cancellando ogni possibilità di vedere il mare dal di fuori delle loro istallazioni di cemento. Per fortuna Fregene continuava a non attirare per le ferie molte persone data la mancanza di divertimenti notturni e di un centro commerciale.

Anche il tentativo di lanciare discoteche non ebbe lungo successo. Gli interventi pubblici contribuirono a ignorare l’identità del posto: che dire del lungomare ? Uno squarcio desolato amplissimo per consentire alle auto parcheggio sufficiente ad assicurare lucrosi arrivi nel fine settimana, una ciclabile lato mare, ovvero cemento, con continui varchi pericolosissimi di uscita dagli stabilimenti, aiole disegnate e riempite di ghiaia e piante più adatte a città africane che laziali.

Dall’altro lato una schiera infinita di villette in vista: niente rimane dell’imponente, secolare pineta. Come immaginare una passeggiata nei mesi estivi in questo scenario? O forse nei mesi invernali? Coerentemente, infatti, non è stata collocata neanche una panchina! Il piccolo tratto che rimane all’altezza della “Spiaggetta” non era un suggerimento prezioso per creare qualcosa di più ameno e naturale? Ora leggo che si parla di riqualificare la pineta intitolata a Fellini mettendoci due parchi giochi per i bambini, che ne hanno uno ben grande, vicino, una zona per fare ginnastica all’aperto, e un parco “museale” con sculture. Magnifico. Ma che c’entrano con una pineta che non aveva bisogno di altro che la cura dei pini, che invece muoiono e rimangono interi o a pezzi per terra, e il rispetto della sua identità, che non tollera istallazioni artificiali, e affascinava in passato personaggi importanti della cultura e dello spettacolo, che oggi scapperebbero, piangendo, da Fregene? Come me, che ritorno in anestesia generale.

Anna d’Alessandro