di Luigia Acciaroli e Vera  Borghini

Vera Borghini – foto d Roxana Isabela Andrei

Sabato 26 novembre 2022 è la giornata nazionale per il Parkinson e molte istituzioni, che a vario titolo sono collegate a questa malattia neurodegenerativa (Centri di ricerca, Ambulatori per la riabilitazione neurologica, Centri di fisioterapia, Reparti ospedalieri ecc.) organizzano incontri per sensibilizzare  e farla conoscere.

Ho avuto la diagnosi di malata parkinsoniana (L.A.)) più di dieci anni fa  e, una volta superato il naturale sconforto che accompagna queste scoperte, ho cercato di frequentare associazioni, centri di riabilitazione, di informarmi sulla malattia e sulle possibilità di poter continuare a condurre una vita relativamente  normale e di limitare i danni prodotti dalla disabilità.

Purtroppo il numero dei pazienti con diagnosi di malattie di tipo neurologico sono in aumento e una diagnosi precoce può rendere meno pesante l’impatto della malattia sulla qualità della vita del paziente e dei suoi familiari.  Infatti sempre più numerosi sono gli studi che concordano nell’affermare che le malattie neurologiche, più di tutte le altre malattie, vanno affrontate in modo globale e con approcci multidisciplinari che integrano cure farmacologiche e cure complementari.

Nel Parkinson ad esempio, la degenerazione dei neuroni può essere rallentata da attività che contribuiscono a mantenere in vita e a migliorarne le prestazioni: l’ascolto di musica, il canto, il ballo, la pratiche sportive, le discipline del movimento. Tutte attività che implicano oltre all’esercizio delle abilità cognitive, l’attivazione e il mantenimento di relazioni sociali e affettive.

Fra tutte queste la Danza sembra avere un posto d’eccezione. Racconto la mia personale  esperienza con la speranza di poter aiutare malati di Parkinson, meno fortunati che, rimanendo isolati perché non autonomi negli spostamenti, perdono presto i contatti con amici e parenti; si rattristano sempre più e scivolano nella depressione. Nella sfortuna ho scoperto, che grazie alla pratica pluriennale dello Hata Yoga, avevo consolidato alcune competenze fondamentali per la consapevolezza dello stato corporeo. Ben presto ho potuto constatare che gli esercizi di rilassamento, il controllo della postura e della respirazione appresi nello Yoga mi aiutavano, e ancora mi aiutano,  a rendere meno invalidanti gli attacchi di Mr Parkinson.

Ma la scoperta delle potenzialità della Danza è stata per me una rivelazione: ovviamente mi riferisco ad una forma di danza moderna, inclusiva che permette ai danzatori di imparare ad usare i movimenti del corpo per esprimere  contenuti interiori e quindi mette in condizione di confrontare e condividere esperienze, di comunicare in modo democratico e libero, senza modelli predefiniti,  mettendo in moto la creatività.

Questo incontro con la Danza è avvenuto grazie alla frequentazione di un gruppo  creatosi all’interno dell’Associazione l’Albero di Maccarese,ad opera di Manuela Rosini  (maestra di Yoga con la quale avevo da sempre lavorato) e sua figlia, Vera Borghini. Quest’ultima è cresciuta “ respirando empatia”  e “mangiando latte e didattica del movimento”.

Per approfondire e ampliare le informazioni sulla “Danza come Terapia complementare nelle malattie di Parkinson”[1] abbiamo chiesto a Vera:

Quali sono le esperienze che ti hanno avvicinato al rapporto tra la danza e la malattia neurologica?

“Le tappe che mi hanno condotto all’indagine tra danza e malattia neurologica sono diverse ma mantengono la stessa matrice: il corpo. Fin dalla prima infanzia ho seguito mia madre -insegnante di Hatha Yoga – nel suo lavoro. Pertanto ho da sempre frequentato grandi sale, palestre, giardini: spazi per lo più vuoti dove era possibile gattonare liberamente imitando movimenti, gesti e posture di cui allora capivo gran poco. Rubavo con piacere dai corpi attorno a me, attratta da coordinazioni che il mio corpicino riproduceva senza richiedere giustezza, che assumeva senza giudizio. Grazie al mio imprinting ho avuto modo di sviluppare simultaneamente linguaggio e movimento. Osservo ora che già allora il moto, per quanto rudimentale, era in seno capace di produrre in me un vocabolario percettivo in espansione sia verso l’esterno che l’interno. All’età di sette anni, a causa di una grave caduta, sono stata costretta a interrompere ogni attività sportiva che, sino a quel momento, praticavo con estrema diligenza. Su indicazione del mio medico curante, per una migliore guarigione, ho intrapreso sessioni di ginnastica correttiva e posturale. Pertanto, il mio corpo è stato proiettato in una dimensione ospedaliera fatta di fisioterapie individuali e di gruppo e pratiche somatiche che all’epoca avevano un fascino esotico. Intrapresa la via della guarigione e arricchita da una relazione con il corpo informata da nuovi precetti, mi sono avvicinata alla danza. Già a meta del ‘900 la danza (in particolare quella definita post-moderndance[2]) prende le distanze dalla tradizione del balletto: dalla concezione formale, narrativa, emozionale tesa alla perfezione di canoni estetici e di movimento si passa ad una visione funzionale, la cui tecnica scaturisce dalla rigorosa osservazione dello scheletro, della compagine organica e degli apparati. Le singole parti del corpo vengono osservate come operanti indipendenti, in un fitto telaio di connessioni anatomiche invisibili e trasmissioni gestuali manifeste. Adottando questo sguardo, le condizioni del movimento si fanno infinite e sostengono la scoperta della propria singolarità.

Così, parallelamente al mio percorso di laurea ho, dapprima, ottenuto il diploma da danzatrice[3] e, successivamente, sono approdata a Bassano del Grappa, nel 2016, al progetto “Dance Well, movement research for Parkinson[4]grazie al quale non solo ho potuto esperire, una volta di più, le potenzialità della danza ma anche vederla realizzata in contesti differenti. Alla luce delle citate esperienze, ho iniziato a lavorare a stretto contatto con un gruppo di persone affette da Parkinson (tra le quali Luigia Acciaroli). Cos+ nel 2017 ha preso vita il corso “I sensi che danzano”.[5] La natura stessa della malattia, unitamente alla eterogeneità del gruppo, mi hanno motivata a frequentare corpi obbligati a cambiare i loro schemi motori. La danza può diventare uno strumento che aiuta a creare delle possibilità. Nel caso della danza per malati di Parkinson, l’attenzione è rivolta al movimento, alla creatività, all’interpretazione artistica e all’interazione sociale, non alla malattia e alla disabilità. La danza contemporanea è polifonica: la danza di ognuno è investita dalla motilità di quella degli/delle altre, ma senza la preoccupazione di un idioma comune. Necessità incessante di ricorso alle variabili piuttosto che alle norme invarianti.[6] Questa prospettiva dell’arte dà un significato alle diversità nella condizione umana e, dunque, al Parkinson. La danza può contribuire a far sì che le persone con Parkinson diano valore e dignità a ciò che possono creare attraverso il movimento, laddove la disabilità motoria è comunemente ridotta alla sola interpretazione deiettiva.[7]

Alla luce di queste esperienze come stai orientando il tuo lavoro tra danza e disabilità?

È una buona domanda, del futuro scorgo appena ciò che sarà. Al momento il mio lavoro si articola in più luoghi e con diverse forme. A Maccarese (Fiumicino) nello spazio di Sostare Danzando, a Roma, con la Onlus ParkinZone[8], per il progetto “Dance Well, movement research for Parkinson”, che è ospitato prevalentemente all’interno del Museo Etrusco di Villa Giulia, a Palazzo delle Esposizioni e al Parco Archeologico del Colosseo. In ultimo, ancora embrionale, una diversa versione dei “Sensi che Danzano” sta per nascere all’interno della cornice napoletana grazie all’Associazione Parkinson Parthenope. A Maccarese “I Sensi che Danzano vuole essere uno spazio danzante aperto a tutti. Questi incontri hanno l’intento di condividere un momento di studio transitorio privilegiando come canale d’apprendimento il corpo. Un invito a rivolgere l’attenzione tra corpo e circostante con il fine di acuire la sfera sensoriale all’interno di un ambiente in continua trasformazione. La coabitazione di chi ha il Parkinson e chi non ce l’ha è protesa a generare un ambiente non esclusivo e non normato, che non promuova un parametro di perfezione, bensì che aspiri a una danza inclusiva e accessibile. Il contributo apportato alla qualità della danza da ogni partecipante ha pari valore e dignità. L’intento è proteso all’individuazione degli schemi motori che siamo soliti attuare per poi ampliare lo spettro delle possibilità a questi associati. Concepisco la danza come un mezzo attraverso cui acquisire una ulteriore forma di conoscenza, ascolto e scoperta che sussiste e sostiene la vita stessa, allargandone i confini. Un corpo pensante e danzante appartiene a tutti e, di conseguenza, tornare ad abitare il corpo consapevolmente, pur non rappresentando certo il rimedio definitivo, può diventare un pensiero in grado di offrire sempre un’altra prospettiva.


[1] Titolo della tesi discussa presso l’Università degli studi dell’Aquila in Scienze Psicologiche Applicate, 2022
[2] Per conoscenza: Yvone Rainer “No Manifesto”, 1965
[3] Presso il Balletto di Roma all’interno del “Corso Triennale professionale in danza contemporanea
[4] https://www.operaestate.it/it/dance-well
[5] Per saperne di più: http://www.azioneparkinson.it/?p=716 intervista tenuta da Marco Piccioni – Azione Parkinson – 2017
[6]  Dupuy D., Danzare oltre, Scritti per la danza (2011) edizioni Ephemeria
[7] Houston, Sara (2015). Feeling Lovely: An Examination of the Value of Beauty for People Dancing with Parkinson’s. Dance Research Journal, 47(1), 27–43
[8] Per conoscenza si rimanda al sito: https://www.parkinzone.org/wp/