Che un film diverta e allo stesso tempo faccia commuovere è l’aspirazione di un gran numero di registi, ma si tratta di un’alchimia della quale in pochi conoscono il segreto. Con Mammuth, Benoît Delépine e Gustave Kervern si posizionano in quella schiera illuminata, spolverando uno humour di raro acume, sebbene mai acido, sulla storia toccante di un uomo inetto e affetto da una sorta di disabilità sociale. Si tratta di Serge Pilardosse, operaio addetto alla macellazione delle bestie in un’azienda alimentare; nei suoi panni, un ipertrofico Gérard Depardieu abbrutito nei tratti e nel portamento e reso anche un po’ ridicolo da una lunga cascata di capelli incolti. Al compimento dei sessant’anni, il signor Pilardose viene congedato dal direttore del macello con una farsesca cerimonia in vista della pensione. In concreto, però, tutto quello che riceve è un puzzle da duemila pezzi con cui potrà riempire il tempo: i soldi invece tardano ad arrivare per il mancato versamento dei contributi da parte dei precedenti datori di lavoro. Dopo un iniziale accenno di depressione dovuto all’incapacità di scandire la propria giornata al di là della precedente routine e poi all’impatto negativo con la burocrazia e con i contabili, Pilardose incoraggiato dalla moglie decide di risvegliare dal torpore la vecchia moto modello “Mammuth” –da cui il suo soprannome- e partire alla ricerca delle scartoffie necessarie a ottenere la meritata pensione. Mammuth è l’antieroe attempato di un racconto di formazione scritto per insegnare che non è mai troppo tardi per riscattarsi dai propri atteggiamenti più ridicoli e grotteschi, e Depardieu riesce a incarnarlo con un’interpretazione magistrale.